Storie di straordinaria quotidianità

Esperienze e lavoro di comunità, una narrazione dal Pilastro

(l'intero articolo lo trovate nel Pdf in fondo all'introduzione) 

Elemento caratterizzante l’esperienza di Scuola di comunità è la costituzione – e la permanenza nel tempo - di un gruppo di ricerca-azione continuamente ricomposto e allargato ma stabile nel suo nucleo, e che vede la costituzione di un’equipe di lavoro che comprende ricercatori, educatori, studenti-tirocinanti, insegnanti, membri delle associazioni del territorio lavorare insieme nel ciclo di progettazione-sperimentazione-riprogettazione continua del progetto. Il lavoro sulla dispersione scolastica del SEST San Donato-San Vitale al Pilastro non è un lavoro che non nasce da questo progetto, vede, infatti, gli educatori impegnati da molti anni in un’attenta opera di tessitura delle reti sociali e delle relazioni con le famiglie in situazione di vulnerabilità; con bambini, preadolescenti e adolescenti dentro gli spazi socio educativi; nelle attività di educativa di strada e negli spazi di comunità; nel favorire la partecipazione di gruppi di ragazzi e famiglie all’offerta educativa, formativa e culturale del territorio operata dalle associazioni; nel costruire percorsi individuali di accompagnamento per i ragazzi in dispersione scolastica e di orientamento nei passaggi fra le scuole secondarie di primo e di secondo grado; nello svolgere una costante azione di mediazione fra persone, istituzioni e risorse possibili. I servizi SEST si pongono quindi come uno snodo cruciale fra i progetti, gli attori istituzionali e sociali del territorio e le persone che lo abitano: capaci quindi, grazie alla lunga durata della loro presenza nel quartiere e alla continuità di lungo termine delle figure che nel servizio lavorano, di giocare un ruolo fondamentale nel favorire la partecipazione degli abitanti allo sviluppo della comunità tutta, così come di ritagliare la progettualità sui bisogni reali delle persone. Lievito delle iniziative, playmaker e sarti delle proposte che arrivano nel Pilastro, il loro lavoro è sull’inclusione sociale e sull’indicare continuamente la comunità come il bene comune di cui tutti hanno il compito di prendersi cura, soprattutto nelle sue parti più fragili. Le riflessioni e le descrizioni che seguono sono quindi solo un frammento di questo lavoro più ampio: un report non esaustivo dell’esperienza di ricerca-azione Scuola di comunità, svolta con una metodologia specifica, sviluppata all’incrocio di saperi differenti (quello degli antropologi, degli educatori, degli assistenti sociali, degli attivisti della comunità), dentro un’equipe multidisciplinare che insieme si è formata, ha riletto e analizzato incessantemente il territorio e le sue criticità, partendo dai bambini e dai ragazzi per approdare a esperienze, pratiche e linguaggi comuni. 1 La collaborazione fra la cattedra di Antropologia culturale del Dipartimento di Scienze 

Pilastro di comunità



“INTERVENIRE NELLA CRISI. LE NUOVE SFIDE NEL LAVORO DELL'EDUCATORE” UNIBO - 

4 GIUGNO 2015 Buongiorno a tutte e tutti, mi chiamo Riccardo e, da alcuni anni, lavoro come educatore nel Servizio di integrazione scolastica del Comune di Bologna o, in parole più semplici, faccio l'educatore scolastico. Come me, nel Servizio di integrazione scolastica del solo Comune di Bologna, lavorano centinaia di altri educatori, e questo servizio, finalizzato all'integrazione scolastica di alunni che presentano varie tipologie di disabilità, si rivolge a tutte le scuole statali primarie e secondarie, e alle scuole d'infanzia comunali. Per fornire alcuni elementi di base, aggiungo che questo è un servizio del Comune, in capo all'Assessorato alla scuola, che viene gestito, per conto del Comune, tramite gara d'appalto, da soggetti del privato sociale, quali le cooperative sociali.

 Le cooperative sociali che vincono la gara, danno mandato alle figure dei coordinatori di occuparsi degli aspetti gestionali del servizio, in stretta connessione con il personale pubblico del Sest (servizio educativo scolastico territoriale), e incaricano gli educatori di occuparsi del lavoro educativo sul campo. Gli educatori e le educatrici sono quindi dipendenti, e molto spesso anche soci, delle cooperative sociali cui il Comune ha affidato la realizzazione del servizio. E' bastata questa breve premessa per far apparire, accanto a noi educatori, e alle classiche figure del mondo della scuola, cioè i bambini, i ragazzi, gli insegnanti, il personale a.t.a., i dirigenti, molta altra gente, che forse non ci saremmo aspettati di trovare. Occorrerebbe poi aggiungere le figure dei neuropsichiatri e degli psicologi delle Aziende di Sanità Locale, che si occupano di effettuare le diagnosi e di monitorare l'andamento dei progetti di integrazione rivolti ai minori. Ciò che mi premeva sottolineare, con questa rapida - e certamente incompleta - carrellata, è che il lavoro dell'educatore scolastico si svolge in una cornice complessa e in costante connessione con una grande varietà di attori e di ambiti, a loro volta collegati fra loro da una articolata rete di rapporti. Ma questa condizione non è prerogativa di chi lavora come educatore scolastico, penso, infatti, che se fosse qui a parlare, al mio posto, un educatore o un'educatrice di un servizio socio-educativo, o di una comunità, presenterebbe una cornice di lavoro, differente dalla mia, ma altrettanto complessa. 

Riprendendo l'introduzione di Simone, sulla nascita e i primi passi mossi dalla neo-nata Rete educatrici ed educatori di Bologna, penso che uno dei principali fattori aggreganti, che hanno stimolato il costituirsi della rete, sia stata la comune lettura che, all'interno dei quadri complessi in cui lavoriamo, in cui si intrecciano i livelli delle politiche sociali con quelli delle prassi educative quotidiane, troppo poco spazio trovi la voce delle figure che lavorano sul campo e, di conseguenza, che troppo poco sia riconosciuta la conoscenza che viene costruita attraverso il lavoro quotidiano. Ritornando al Servizio di integrazione scolastica in cui lavoro, per esempio, in questi ultimi tempi gli educatori stanno cercando di portare all'attenzione dei loro interlocutori alcuni temi cruciali, con cui si trovano a fare i conti nel loro lavoro quotidiano. 

Il primo di questi riguarda la fisionomia stessa dell'educatore all'interno contesto scolastico, e può essere riassunto dalla domanda se l'educatore debba connotare il proprio intervento come intervento individualizzato rivolto all'alunno con disabilità, oppure divenire una figura che si relaziona all'intero contesto, con uno sguardo privilegiato sul tema dell'inclusione, tema che, anche a seconda dei momenti e delle situazioni, può riguardare l'alunno (o gli alunni) con disabilità ma anche molti altri loro compagni di classe. In altre parole l'educatore scolastico è l'educatore di Luca o Sofia, oppure è l'educatore della classe, che si occupa di sostenere l'integrazione di Luca, Sofia e di tutti quei loro compagni che, in momenti diversi, possono incontrare delle difficoltà? 

Il secondo riguarda il rapporto tra ore di lavoro sul campo e ore di lavoro fuori dal campo, di progettazione, coordinamento e supervisione, rapporto che spesso non è definito a priori, in cui si riscontra un fortissimo sbilanciamento verso le ore sul campo e una svalutazione della funzione del lavoro fuori dal campo. Tale sbilanciamento poi lo si paga, tanto in termini di esaurimento di energie, quanto di abbassamento della qualità del servizio, fino ad arrivare al punto in cui si rischia di perdere di vista la sostanza stessa di un intervento che si voglia chiamare educativo. 

Il terzo riguarda la distinzione degli ambiti di intervento di educatori e insegnanti, distinzione che oggi, in molti casi, appare confusa e troppo legata alle interpretazioni dei singoli, con conseguenze negative tanto sul piano della qualità del lavoro, quanto su quello della qualità dei rapporti. Affrontare il tema della distinzione degli ambiti, vuol dire porsi domande come: che cosa c'entra un educatore con la didattica della matematica e dell'italiano? Che differenza c'è tra un educatore e un insegnante di sostegno? Che cosa si impara e che cosa viene valutato a scuola? Dietro ad ognuno di questi tre temi, ora solamente accennati, ci sono esperienze, riflessioni, soluzioni e prassi adottate, a volte funzionali, a volte meno, che meriterebbero di assumere maggior rilevanza ai fini di come il servizio viene strutturato e gestito a livello cittadino, e non solo. Più in generale, uno degli obiettivi a lungo termine della Rete educatrici ed educatori di Bologna è quello di promuovere, in noi educatori prima di tutto, un allargamento della visuale, che ci permetta di qualificarci come interlocutori attivi e consapevoli nei processi decisionali, attraverso cui oggi vengono individuate le priorità, definiti i contenuti dei bandi di gara, ripartite le risorse e strutturati i servizi. In altri termini ci sembra prioritario che noi educatori, accanto allo sviluppo delle nostre competenze specificamente educative, quelle che mettiamo in gioco sul campo, quando promuoviamo l'empowerment degli individui e dei gruppi, oppure quando ci occupiamo di prevenzione o di recupero, diventiamo in grado di porci come soggetti attivi e competenti, polo dialettico imprescindibile, all'interno dei diversi processi di costruzione delle politiche sociali cittadine. 

Questo è uno degli orizzonti che, come Rete, ci siamo posti e, nella fase che stiamo attraversando adesso, molti dei nostri discorsi e dibattiti, ruotano intorno al tema del come, cioè come, con quali risorse e quali strumenti, perseguire questo obiettivo a lungo termine. Per il nostro modo di intendere, questo tentativo, come educatori, di divenire soggetto politico attivo e consapevole, comporta necessariamente il passaggio da una dimensione individuale, in cui molti di noi si sentono confinati, ad una collettiva. E riteniamo inoltre che questa dimensione collettiva, ancora da costruire, debba qualificarsi come altra rispetto ad alcune già esistenti, che per diversi motivi ci sembrano inappropriate e insufficienti per i nostri obiettivi. Per esempio ci sembrano inappropriati i contesti, di cui pur spesso facciamo parte, delle compagini dei soci delle cooperative sociali a cui il Comune appalta la gestione dei servizi educativi ed assistenziali. Riteniamo infatti che per come spesso oggi si struttura il rapporto tra committente e soggetto attuatore (che, tra le altre cose, non può evitare di porsi il problema della scadenza e del rinnovo dell'appalto), diventi spesso difficile, nella dialettica tra queste due parti, far emergere tutta una serie di criticità, pur molto sentite dagli operatori e dai destinatari dei servizi stessi. Non ci sembrano sufficienti neppure i contesti dei sindacati, con cui comunque intendiamo collaborare, rispetto all'importantissima parte della tutela dei lavoratori, che ad ogni cambio di appalto rischiano di perdere il lavoro, o veder decurtati i propri monte ore e i propri stipendi. Ma, come dicevo, la tutela dei lavoratori, che rimane importantissima, non esaurisce gli aspetti di cui riteniamo imprescindibile occuparci, e che vedono al centro l'educazione e il ruolo sociale della figura dell'educatore, come sono al giorno d'oggi e come vorremmo che fossero in futuro. Da qui la necessità di differenziarci e cercare di costruire qualcosa di altro anche rispetto alla forma del sindacato.

Ma come? Con quali strumenti e quali ambiti collettivi far interagire oggi gli educatori come soggetto pubblico, attivo nella costruzione delle politiche sociali?-, è proprio questa domanda che vorremmo portare all'attenzione dei dibattiti di oggi pomeriggio, una domanda che intendiamo trasversale alle diverse aree che verranno trattate, quelle degli educatori e i servizi sociali, gli educatori e la scuola, gli educatori e il territorio. Riccardo Circià

UNO, NESSUNO, CENTOMILA(Riccardo Circià)EDUCATORI ED EDUCATRICI DEGLI ANNI '10



Mi è venuta l'idea di dare forma scritta ad alcuni pensieri sull'identità professionale dell'educatore pochi giorni fa, mentre tornavo a casa dopo una mattinata di lavoro a scuola. Era stata una mattinata un po' insolita, in cui avevo avuto modo di vedere da vicino, per la prima volta, il lavoro di un gruppo di educatori del post-scuola. Per la verità nulla di ciò che era accaduto mi aveva colto di sorpresa: educatori che assistono il pasto dei bambini restando in piedi senza mangiare, i rapporti numerici bassi (1:20, 1:25), anche in presenza di bambini certificati, un po' di cibo caduto, per la fretta, sul pavimento della mensa e poi spiaccicato dalle scarpe dei bambini. Niente di straordinario, né di sconvolgente, cose che mi aspettavo e di cui avevo sentito parlare decine di volte da diversi colleghi, ma averle viste con i miei occhi è stato sufficiente per spingermi a scrivere qualcosa, non sullo stato dei servizi o sul CCNL (cose di cui comunque avremo modo di parlare prossimamente), ma su noi educatori e le nostre identità.
Inizio dicendo che la mia opinione è che sia, non solo possibile, ma opportuno cercare di uscire da alcune ambiguità e tracciare i contorni di una figura professionale come quella dell'educatore e che, tale lavoro, dovrebbe partire dagli educatori stessi, invece che venire delegato ad altri. Per questo spero che, insieme, noi educatori avremo la forza e la capacità di costruire un nostro punto di vista chiaro sull'argomento e, quanto segue, vorrebbe essere un primo e piccolo contributo da parte mia, che si inserisce in un dibattito molto più ampio e articolato.
Siamo tutte e tutti consapevoli che l'educatore è una figura a più dimensioni, di cui possiamo mettere in evidenza, prime fra tutte, quella emotiva, quella politica e quella tecnica.
La dimensione emotiva è collegata all'essere presente nella relazione con l'altro e al credere in quello che si sta facendo, e al dato di fatto che, questo lavoro, mette chi lo pratica costantemente in relazione, non solo con l'altro, ma anche con se stesso, la propria storia personale e le proprie risorse e fragilità.
La dimensione politica è connessa, invece, all'obiettivo del cambiamento, già da altri definito “la cifra essenziale del lavoro educativo” (S. Tramma, 2006), cambiamento nei soggetti coinvolti, educatori compresi, ma anche cambiamento dei contesti, istituzionali e non, in cui si agisce. Ma la parola cambiamento, da sola, non dice nulla, mentre assume significato se accostata ad una idea e ad una prospettiva di uomo, di rapporti tra individui e di rapporti sociali, in una parola ad una prospettiva politica.
Infine la dimensione tecnica, che forse più spesso è oggetto di corsi di formazione, è composta da un corredo di conoscenze sulle diverse fasi dello sviluppo umano e sui rischi e le potenzialità ad esse connesse, e da tutto un bagaglio di attività, di strumenti e di metodologie da utilizzare sul campo.
Si dice che queste dimensioni siano tutte e tre indispensabili, e debbano tenersi in equilibrio fra loro, e io penso che sia vero.
Ragionando per assurdo, infatti, se provassimo a immaginare un professionista quasi del tutto sbilanciato su uno solo di questi tre poli, ne emergerebbero figure che si allontanano molto da quella dell'educatore, almeno per come ci viene da intenderla intuitivamente. Per esempio, una figura che fosse quasi del tutto orientata all'aspetto emotivo ed empatico verso gli altri, potrebbe facilmente assomigliare ad un frate francescano, e, viceversa, una che fosse spostata tutta sul versante politico, potrebbe prendere le sembianze di un leader
rivoluzionario. Dico questo con tutto il rispetto per queste figure e la convinzione che l'incontro con esse abbia, nel corso della storia, cambiato radicalmente la vita di molti, ma sono anche convinto che quella l'educatore si distanzi significativamente da entrambe.
Non di meno, sarebbe ben poco “educatore”, una figura quasi esclusivamente di natura tecnica, in quanto rischierebbe di muoversi senza prospettive e rivestire, quindi, semplicemente la funzione di facilitare l'assimilazione dei singoli alle forme e ai modelli sociali e culturali presenti nel contesto in cui essi si trovano. E forse, in questo momento, è questo il rischio a cui bisogna stare più attenti.
Tuttavia, anche la presenza di tutte e tre queste dimensioni professionali, poste in equilibrio e in connessione fra loro, non sarebbe sufficiente per poter affermare che ci troviamo di fronte ad un educatore.
Occorrono a mio avviso anche altri ingredienti, rintracciabili nella consapevolezza, la meta-riflessione e l'uso intenzionale e, a volte, strumentale delle tre dimensioni stesse. In poche parole, nel corso della mia esperienza mi sono convinto che gli educatori e le educatrici capaci fossero quelli che sapevano “usare” le proprie emozioni, le proprie convinzioni politiche e le proprie capacità tecniche, nel modo più adeguato a raggiungere gli obiettivi di cambiamento che si erano proposti in un determinato contesto. E per arrivare a saperle “usare”, prima di tutto avevano dovuto imparare ad esserne consapevoli, ad esplicitarle agli altri e a rifletterci sopra, anche, e forse soprattutto, nella relazione con i cosiddetti “utenti”. Ma non solo, questi educatori avevano anche imparato a inserirle in un'ottica progettuale, ovvero a non assumere una certa modalità di utilizzo di questi aspetti, come buona una volta per tutte, ma invece a sottoporla a costante verifica e riprogettazione, attraverso il confronto con gli altri e con gli elementi dati dall'esperienza stessa.
Per ritornare, infine, sulla dimensione politica, ritengo anche che ogni educatore debba entrare nel merito, operare ed esplicitare le proprie scelte in questo campo. Di conseguenza si formeranno aggregazioni di educatori ed educatrici, che si riconoscono e si sentono politicamente affini, anche se forse non sempre si troveranno a lavorare insieme nei servizi.
Cercando di non enfatizzare troppo la cosa penso che, per quanto riguarda me e molti altri educatori che incontro quotidianamente, l'antirazzismo, l'antisessismo, l'egualitarismo, la solidarietà e l'autodeterminazione siano valori politici che entrano a buon titolo nel nostro modo di lavorare nei diversi servizi e contesti in cui ci troviamo a farlo. E allora mi pare sia ancora una volta utile ritornare, anche per questi argomenti, alle pratiche di riflessione e di meta-riflessione, ma forse, in modo ancor più urgente, a quelle dell'emersione e dell'esplicitazione, a noi stessi, agli altri e alla società in cui viviamo.

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